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La complessità come strumento per capire e gestire il cambiamento

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Redazione Antreem
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“Divide et impera”, separa e comanda, dicevano gli antichi romani, alle prese con il dominio di vasti territori e la sottomissione di popolazioni numerose e culturalmente eterogenee. Una strategia che si è rivelata vincente per secoli e non solo in ambito militare; infatti il divide et impera è da sempre uno dei cardini dell’approccio analitico, ben conosciuto da chi studia e lavora in ambito tecnico scientifico. Ma questo approccio è sempre il migliore per capire e risolvere la totalità dei problemi? Secondo la teoria della complessità la risposta è no! È invece necessario integrare a esso l’approccio sistemico, anche a costo di mettere in discussione metodi consolidati, convinzioni radicate e best practice acclarate.

Ma partiamo dall’inizio: chi ha una formazione scientifica è portato, sin dai banchi di scuola, ad avere un approccio analitico per risolvere i problemi, ovvero a scomporli in tante parti più semplici, quindi più facilmente fronteggiabili e risolvibili rispetto al problema complessivo di partenza.
Il fare analitico è vincente anche di fronte ad imprese ciclopiche, come ad esempio ridipingere l’intera torre Eiffel. Infatti, se non ci si fa prendere dalle vertigini in fase di sopralluogo, si può “facilmente” trovare una soluzione al problema, andando a scomporre il lavoro in fasi e pianificandole adeguatamente. A questo punto basterà “solamente” reperire 6 milioni di euro, trovare 25 imbianchini alpinisti disposti a lavorare per 18 mesi, procurarsi 60 tonnellate di vernice, 50 km di funi e 50.000 metri quadrati di reti di sicurezza e …. et voilà, les jeux sont faits!

Se però, in seguito, si vuole conoscere lo stato di salute della torre, la sua capacità di resistere a un terremoto o al passare degli anni, ci si può accontentare di studiare separatamente i danni arrecati dai singoli agenti atmosferici, dall’inquinamento e dalle altre possibili cause di deterioramento? Un chimico sa bene che se a una reazione vengono aggiunti ulteriori reagenti, essa può portare a risultati inattesi. Lo stesso dicasi per un ingegnere strutturista: egli è ben conscio del fatto che più concause che agiscono contemporaneamente possono compromettere un edificio che pure è capace di resistere alle singole sollecitazioni.
Se si passa poi a studiare i gruppi sociali, ciò appare ancora più lampante: per capire le traiettorie scelte da uno stormo di uccelli non basta certamente studiare il volo di un singolo esemplare!

Ecco allora che un approccio diverso è necessario. Dunque si applica una concezione globale e non locale, il focus è spostato da una visione analitica ad una olistica, che tenga conto del contesto, dell’ambiente circostante e dell’interazione tra le parti che lo compongono, in un’ottica sistemica. Per arrivare a ciò, è necessario un cambio di paradigma: esso può essere fornito dalla scienza della complessità.

Parlare di complessità può spaventare, in quanto evoca (erroneamente) il concetto di complicato. Ma, se ci rifacciamo alla sua etimologia, scopriamo che “complesso” deriva dal latino complexus che significa «stringere, comprendere, abbracciare» e che quindi un Sistema Complesso è tale se è “costituito di molte parti correlate che influiscono una sull’altra”.

Rimane un interrogativo: in un’ottica pragmatica e fattiva, come si può sfruttare il nuovo paradigma? Basta guardarsi intorno e prendere atto d’essere parte di un ecosistema che è, per sua definizione, un sistema complesso, costituito da organismi viventi che interagiscono tra loro e con l’ambiente che li circonda; eppure spesso ci dimentichiamo “della natura sistemica dell’ecosistema”.
In merito, ricordiamo che, a inizio 2017, la conferenza Stato-Regioni stava per approvare un piano per l’abbattimento di un certo numeri di lupi, che, cresciuti significativamente negli ultimi anni, stavano facendo razzie di greggi e mandrie. Il piano è poi stato accantonato a causa delle proteste provenienti dai movimenti animalisti. Senza entrare nel merito etico della decisione, è evidente che di fronte a una situazione complessa (l’ecosistema) non è saggio adottare una soluzione che non abbia una visione sistemica, limitandosi ad agire su un solo organismo.
Le conseguenze di un approccio siffatto potrebbero rivelarsi persino più dannose, come insegna lo sterminio perpetrato ai danni delle lontre fluviali, quasi estinte a causa di atti di bracconaggio. La colpa di questi mustelidi era di essere ritenuti responsabili di depredare i fiumi di tanto pesce, affermazione vera, in quanto le lontre si cibano ogni giorno di una quantità di pesce pari al 15% del proprio peso; ma reale solo parzialmente, in quanto non tiene conto che questi animali riescono a catturare prevalentemente esemplari meno mobili, ossia vecchi (che non possono comunque ripopolare l’ecosistema) e soprattutto malati, evitando così la diffusione di malattie tra la popolazione sana.

In conclusione, la complessità è una chiave interpretativa che aiuta a comprendere quanto sia complessa la realtà, quanto siano forti le relazioni tra tutti gli attori presenti in un contesto e quante queste relazioni influenzano la realtà stessa.
Di quanto sopra sono consapevoli un numero sempre crescente di studiosi che hanno adottato o stanno adottando l’approccio sistemico nel loro lavoro. La conseguenze di questo cambio di paradigma ha portato significativi sviluppi in svariati ambiti della conoscenza umana, dalla biologia, all’economia, dalla meteorologia alla medicina senza dimenticare la sociologia, il design e l’organizzazione dei gruppi di lavoro.

Per coloro che credono che effettivamente “il batter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas”, come si chiedeva il meteorologo Lorenz nel 1972, è allora importante approfondire gli aspetti legati alla complessità. Nella speranza, magari, di capire in anticipo il cambiamento e superare indenni le mutazioni, facendo in modo che le mutazioni possano essere ricondotte a situazione utili per evolversi e migliorare la propria condizione.

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